Coach Ettore Messina ha partecipato con Gigi Datome alla seconda giornata del Festival dello Sport, organizzato dalla Gazzetta dello Sport. Ecco una sintesi del suo intervento.

Sulla stagione di Milano – “La nostra aspettativa è riuscire a fare il meglio possibile. Non ha senso dire che voglio vincere questo o quello. Sulla maglia abbiamo scritto Armani e quindi sappiamo di essere competitivi. Ora vogliamo avere un livello di qualità e coesione che ci permetta di ottenere obiettivi all’altezza della nostra storia e delle ambizioni della nostra proprietà. Quindi vincere lo scudetto, possibilmente la Coppa Italia e tornare a giocare i playoff in EuroLeague”.
Sull’arrivo di Gigi Datome – “Come è successo l’anno passato con Sergio Rodriguez e Luis Scola, se un giocatore come lui o come Kyle Hines pensa di trovare qui quello che ha trovato in altri grandi club, allora vuol dire che qualcosa di buono stiamo facendo. Questo premia gli sforzi del club”.
La prima volta che ha visto Gigi – “Era in panchina a Siena quando perdemmo la nostra prima partita europea con il CSKA. Il vero Datome lo ricordo a Roma quando è diventato un giocatore importante di una squadra importante. Mi ha colpito la scelta NBA, soprattutto la serenità e la grinta con cui ha affrontato una situazione difficile senza mollare alle prime difficoltà. Da allenatore l’ho allenato al Preolimpico nel 2016, poi agli Europei dell’anno successivo, ma aveva avuto problemi fisici e durante la preparazione non era stato disponibile per tanto tempo. Lui è puntiglioso, ha metodo nel prepararsi. Giocatori come lui o Hines ricevono un rispetto costruito attraverso lavoro e comportamento per questo riescono sempre a incidere, che giochino più o meno bene”.
La scoperta di Milano – “Mi piace molto camminare per Milano con mia moglie  e vedere piazze e monumenti che non conoscevo o non avevo mai visto. Di recente ho fatto una passeggiata di mattina, con tanto tempo, in Parco Sempione. Lo conoscevo ovviamente, ma non ci ero mai andato. E’ stata una bella mattinata”.
Perché l’addio all’Italia – “Avevo lasciato l’Italia per provare a rivincere l’EuroLeague con il CSKA dopo esserci andato vicino a Treviso dove avevamo giocato una finale a Barcellona. Il CSKA era un club che aveva i mezzi e il potere economico per mettere assieme una squadra di alto livello. Come poi è successo. Inoltre, dopo anni molto belli a Bologna e Treviso si era creato un clima che mi era diventato insopportabile. Da fuori può sembrare strano perché gli insulti per molti sono parte del gioco, visto quello che guadagno per fare l’allenatore. Ma io la penso in modo diametralmente opposto, preferisco che mia moglie e mio figlio possano venire alla partita senza sentirmi insultare. A Mosca mi sono trovato a vivere in una specie di bolla, perché non parlavo il russo e non leggevo i giornali neanche dopo le prime sconfitte. Ma sia lì che negli Stati Uniti, l’atmosfera agli eventi sportivi è diversa, per un fatto culturale. Per noi latini la competizione ha un significato differente”.
La scelta americana – “Andai ai Lakers in un momento in cui avevo bisogno di staccare e sentivo di non avere l’energia per operare in prima persona. Mike Brown mi offrì questa possibilità. Ero ai Lakers, con Kobe Bryant, Pau Gasol, insomma è stata un’esperienza di studio, di aggiornamento. Tra il primo e il secondo anno della seconda esperienza a Mosca, Gregg Popovich mi propose di andare a fare il suo primo assistente, perché due volte chi aveva quel ruolo era andato via, Brett Brown a Philadelphia e Mike Budenholzer ad Atlanta. Ma ero legato a Mosca e dovetti rinunciare. Però lui mi tenne il posto e così ci andai per fare un’esperienza che sapevo sarebbe stata importante anche per la mia famiglia. Poi mi stimolava lavorare nella più grande franchigia sportiva al mondo, per come lavorano da tanti anni, fedeli a certi principi, al rispetto per tutte le persone. In cinque anni che ho passato lì, nessuno ha mai scaricato la colpa di una sconfitta su nessuno: hanno sempre avuto pari dignità nell’accogliere le vittorie e nell’incassare le sconfitte. Per questo sono convinto che gli Spurs abbiano vinto tanto per venti anni. Mi piaceva anche l’idea di vedere la parte finale della carriera di Manu Ginobili”.
Lavorare con Gregg Popovich – “Quando ero bambino c’era questa figura mitica, Barnard, il chirurgo che effettuò il primo trapianto di cuore. Per me andare a lavorare con Popovich era come andare a lavorare con Barnard e fare il piccolo chirurgo. E quando lui è mancato, purtroppo è successo per la perdita della moglie, ho allenato tre partite di playoff che per me è stato come se fossero finali di EuroLeague”.
Manu Ginobili – “Sono passati venti anni da quando ero a a Bologna con Manu Ginobili, ma lui è sempre rimasto lo stesso. Quando andavamo a Miami, durante il riscaldamento, prima della partita, dietro il canestro in cui tirava c’erano mille persone di origini ispaniche tutte lì per lui. Non l’ho mai visto rifiutare un autografo, che avesse vinto o perso. Lo faceva a venti anni e lo faceva a 40 anni. Il successo non ha cambiato nulla di lui, se non dargli maggiori possibilità di esprimere i valori in cui crede”
La scelta di tornare e farlo a Milano – “Avevo voglio di allenare in prima persona, di avere un progetto mio, la mia quotidianità, di prendere le mie decisioni. Ho parlato con la proprietà trovando persone che vedono lo sport in un modo che ritengo corretto. Mi sono sentito onorato che avessero pensato a me, dandomi la possibilità di riprodurre in piccolo, ma non tanto piccolo, uno schema organizzativo simile a quello di San Antonio. Spero di restituire qualcosa di quello che mi hanno dato”.
Il peso della storia dell’Olimpia – “Dal mio punto di vista sono seduto su una panchina sulla quale si sono sedute leggende del nostro basket, come Dan Peterson, Franco Casalini, Bogdan Tanjevic, ma ovviamente per me la figura principale resta Cesare Rubini. Da assistente di Sandro Gamba ho avuto la possibilità di apprezzare Rubini. Non ho mai visto un personaggio con quel tipo di personalità”.
La Supercoppa – “L’abbiamo vinta giocando sei partite e una Final Four quindi un percorso lungo, compiuto dopo mesi difficili, non vincendo una singola gara. Ci ha dato fiducia, perché abbiamo avuto la prova che facendo le cose in un certo modo possiamo essere competitivi”.

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